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Mercoledì 21 maggio 2025, a Torino, ha preso avvio il percorso verso la Biennale della Prossimità 2026. Una giornata intensa tra promotori nazionali e realtà territoriali, che ha visto nascere il percorso per la formazione del comitato locale. In un clima di ascolto e partecipazione, sono emerse parole chiave, bisogni e visioni. Il prossimo passo sarà il 27 giugno.

di Paolo Cignini – Italia che cambia (Promotore nazionale della Biennale della Prossimità)

Mercoledì 21 maggio, nella Sala Montalcini del complesso dei “Poveri Vecchi” in Corso Unione Sovietica 220/D a Torino, è partito ufficialmente il percorso che porterà alla Biennale della Prossimità 2026. Una giornata intensa, densa di pensieri e possibilità, articolata in due momenti distinti: al mattino, l’incontro tra promotori nazionali; al pomeriggio, l’apertura verso il territorio e la nascita del percorso che porterà alla formazione del comitato locale.

Un doppio momento di attivazione

Il primo tempo della giornata – più interno e operativo – ha visto riuniti i promotori nazionali per discutere della struttura organizzativa, della composizione del team operativo e delle risorse necessarie per portare avanti l’intero percorso. È emersa una consapevolezza chiara: la Biennale non è un evento da organizzare, ma una relazione da tessere nel tempo. Un processo che chiede coerenza tra valori dichiarati e modalità pratiche, che impone di lavorare sulla trasparenza economica, sulla governance condivisa, sulla sostenibilità reale.

Personalmente, ho apprezzato la franchezza con cui si sono affrontati temi delicati come la fragilità delle reti, la difficoltà nel reperire fondi, l’importanza di definire con precisione ruoli e responsabilità. La prossimità, se vuole essere trasformativa, deve passare anche da una messa a fuoco onesta dei propri limiti.

Il pomeriggio: un’esplosione di partecipazione

Nel pomeriggio, la sala si è riempita. Più di cinquanta persone: cooperative, associazioni, gruppi informali, operatori pubblici, singole cittadine e cittadini. C’erano operatori sociali, mediatori interculturali, attiviste e volontari, educatori, artisti, referenti di fondazioni. Ma soprattutto c’era una voglia condivisa di esserci, contribuire, dare forma a qualcosa di nuovo. Torino ha risposto, e lo ha fatto con intelligenza e presenza.

Dopo una breve introduzione, il cuore dell’incontro si è giocato attorno a quattro domande: cosa significa prossimità per noi oggi, cosa ci aspettiamo da questo percorso, quali sono le nostre motivazioni profonde, e quali relazioni vorremmo attivare. Non si è trattato di un semplice brainstorming, ma di un momento vero di presa di parola collettiva. Alcune risposte sono state scritte su post-it, altre condivise a voce. Un mosaico potente.

Le parole chiave che ci interpellano

Tra le parole più ricorrenti: visibilità, connessione, ascolto, radicamento, identità, verità, fiducia, cura. Qualcuno ha parlato di “rompere la chiusura” che spesso Torino esprime. Altri hanno posto con forza la questione dell’inclusione: chi resta ai margini anche nei percorsi più partecipati? Chi prende parola, e chi no?

Come promotore nazionale – ma anche come cittadino – sento che questi interrogativi ci riguardano tutti. Sono proprio questi gli spazi scomodi in cui ha senso stare se vogliamo costruire una Biennale che non sia solo rappresentazione, ma trasformazione. Non possiamo accontentarci di “fare rete” tra realtà già convinte o strutturate. Dobbiamo tessere ponti laddove oggi ci sono silenzi o disconnessioni.

Un altro tema forte è stato quello dell’identità: sia quella di Torino, città post-industriale in cerca di una nuova narrazione; sia quella dei suoi quartieri, come Mirafiori, citato da più voci come simbolo di passaggi non risolti. È emersa la necessità di costruire un immaginario diverso, che tenga insieme memoria e possibilità, fragilità e risorse, senza edulcorare ma senza nemmeno arrendersi alla retorica della crisi.

Verso il prossimo passo

Il prossimo appuntamento è già fissato: venerdì 27 giugno 2025, sempre a Torino. Sarà il momento per entrare nel vivo del comitato locale, affrontare i temi della Biennale e iniziare a immaginare collettivamente quando e come si svolgerà l’evento del 2026. Non solo “dove” – quello è già chiaro – ma soprattutto con quali contenuti, con quale metodo, con quale intenzione politica e culturale.

Per me, la Biennale ha senso solo se resta uno spazio capace di far emergere ciò che normalmente resta sottotraccia: le domande non risolte, le tensioni invisibili, le micro-pratiche che cambiano la vita. La partecipazione non è un format. È una sfida. Torino ha dato un segnale chiaro: c’è voglia di mettersi in gioco. Tocca a noi custodire questa energia, renderla generativa, aprirla ad altri.